di Antonio Fulvi, Sergio Mallngher, Franco Aulisio

– Dal 29 novembre al 6 dicembre una barca di 18 metri, Alzavola, con i suoi membri di equipaggio Vincenzo, Enrico, Gerry e Alberto Zaccagni, Guido Bartolozzi, il nostro collaboratore Antonio Fulvi, Roberto Caporale, Mario Adami, Stefano Rossi e Luciano Rigli, sono stati in balia di una tempesta che ha raggiunto forza 10. Ecco in questo servizio iI racconto della drammatica avventura.

Le Pilot, con le loro freccette e pignolerie statistiche, dicono che in dicembre i venti dominanti tra Corsica e Baleari pestano duro da Nord, con il Mistral che può rinforzare anche a burrasca fote. Così avevamo deciso di tenerci moderatamente alti perché con il golfo del Leone non scherzano nemmeno i transatlantici, specie d’inverno. Il Mistral può sbranare proprio da Leone: ne sa qualcosa Moitessier che l’ha sempre temuto più dello tempeste di Capo Horn.

Invece, il secondo giorno di navigazione ci arrivò addosso il libeccio e si mise a rinforzare ora dopo ora. Il bollettino radio sparò il solito avviso di burrasca quando già c’eravamo dentro e sulla scaletta del quadrato buona parte dell’equipaggio cominciò un educato vai-e-vieni con i settori di giardinetto. Luciano mise in palio, non senza autoironia, la “coppa Rimet” e per la prima giornata schiacciò ogni avversario con una pregevolissima performance: rimetteva con stile, segnava il suo punteggio, tornava in quadrato a mangiare gagliardamente ed era subito pronto per un’altra esibizione. Provarono a tenere il ritmo in parecchi, ma fu poca roba. Mario, il Medico di bordo, si godeva lo spettacolo.

“Vento da Sud-Ovest, maneggevole e non dura” disse allegramente qualcuno a bordo. E prendemmo una prima mano di terzaroli alla randa, tirando bordi verso Minorca in attesa che girasse a Mistral. Più tardi, al tramonto di lunedì 29 novembre, passammo rapidamente alla seconda e poi alla terza mano, genoa 3 e mezzana. Con qualche rullata del boma. Alle 22 togliemmo una mano perché sembrava che il vento desso stanco: facevamo bordi senza stringere a morte, mirando a guadagnare un po’ a Nord, mentre Il log Walker continuava e darci le miglia percorse da Livorno. Ogni tanto, quella notte, il vento dava una soffiata più forte da W, poi abbonacciava un filo e riprendeva a fischiare da libeccio. Una normale buriana da SW. Chi se ne frega con l’Alzavola?

Eravamo in dieci, di cui otto con buona esperienza di mare o. malgrado la “Rimet” c’era parecchia euforia. Mesi e mesi di sogni, di superlavoro, di acrobazie e finalmente eccoci In navigazione, con il bompresso puntato idealmente sull’Atlantico. Il programma era di portare l’Alzavola alle Canarie, lasciarla qualche mese a far carenaggio per poi ripartire con la successiva rata di ferie e buttarsi alle Antille. Poi chissà, altre rate di ferie, altri sogni di mare.

L’Alzavola era preparata a picchiare duro. Bella, vecchia, cara Alzavola con i suoi diciotto metri di antico legno inglese, i suoi due alberi a ketch e il robusto bompresso sulla prua quasi verticale. Come l’aveva curata Gerry Zaccagni durante la preparazione! Oltre mezzo secolo di vita, tutto dimensionato per i “quaranta ruggenti” e nella pancia un 100CV Perkins che era stato di Doi Malingri nella Clipper Race. Con l’Alzavola, dunque, tirammo bordi e bordi contro il libeccio fregandocene di questi trenta nodi che fischiando, diventarono presto quaranta per poi calare di nuovo a trenta e scoppiare ogni tanto in un groppo imbottito di fulmini.

Martedì 30 il barometro prese a scendere deciso, ma facevamo le nostre brave 5 miglia all’ora, prua 285°, log 248 da Livorno e ci divertimmo a giocare con il sestante e un paio di rette d’altezza. Alle 13 incrociammo la portacontainers Afoundria della Sea-Land ed Enrico l’agganciò con il Vhf facendosi dare la posizione esatta. Ci scambiammo convenevoli mentre la nave s’allontanava rollando: dissero anche che era “very bad wheater indeed” e ci fecero con parecchia apprensione gli auguri. Il perché lo capimmo qualche ora più tardi, quando qualcuno venne in coperta con la faccia bianca: “il barometro sta calando alla disperata, qui ci arriva addosso qualcosa di brutto”. Arrivò, infatti. Alle 20:40 fummo costretti a levare il fiocco 3 lasciando una trinchetta pesante sullo strallo interno, mentre il SW rinforzava decisamente o cominciava ad esserci un mare rispettabile, con onde del lutto anormali. Alle 24 il libeccio era un bel forza 7. Riducemmo parecchio vela e Gerry decise di fare qualche ora appoggiandosi al motore per guadagnare strada. Il mare montava e a bordo non tutti stavano decisamente bene. Il barometro era molto basso, pensavamo che tuttavia dovesse durare ancora poco e finimmo per far lo sbaglio di non distribuirci gli sforzi. Stare in cucina era un’agonia di botte e scossoni, stare in coperta un bagno continuo con un vento tagliente che ormai difficilmente calava, anche solo per poco sotto i quaranta nodi. A poche ore dall’alba dovemmo ritirar di corsa il prezioso log perché le sempre più frequenti “frenate” che la barca subiva con le onde al mascone l’avevano tutto aggrovigliato. All’alba il libeccio urlava a forza 8. La luce livida ci presentò un mare assai poco attraente, un mare cattivo di piombo e vetro fuso. Eravamo stanchi, bagnati, gelati e parecchi dei più attivi non mangiavano ormai da una quindicina d’ore. Non ci fu molto tempo per sperare in una giornata un po’ migliore, dovemmo decidere rapidamente una scelta che l’Alzavola stava in realtà facendo già da sola: prendemmo la cappa sulla sola maestra con tre mani di terzaroli, aiutandoci col motore. Il mare continuò a montare. Alle 11:00 circa ci fu a prua un gran fracasso mangiato dal vento e qualcuno dl noi strisciò carponi lino alla base del bompresso: i colpi dl mare avevano parzialmente strappato il fiocco tre (che puro avevamo serrato strettamente), metà del quale era in acqua sottovento, pieno, ad ogni frangente, di furia scatenata. In quattro lo ricuperammo, centimetro per centimetro. Non fu un lavoro facile, malgrado Gerry ci aiutasse con il motore, Albertino Zaccagni strisciò come un granchio fino alla varea del bompresso e sgarrocciò quello che rimaneva della vela: ad ogni ingavonata il ragazzo spariva letteralmente sottacqua e quando la delfiniera di rete riemergeva scrollando schiuma il ragazzo era ancora li, caparbiamente abbracciato al bompresso, sembrava ogni volta un immenso regalo della sorte.

Rinforzò ancora, alla disperata. Ormai eravamo alla cappa piena e a bordo cominciarono i cedimenti. Captammo radio Marsiglia e la cosa non giovò a qualcuno: dava l’allarme a tutte lo navi, per una tempesta forza 9-10 in corso. Alle 21:15 registrammo sui libro di bordo vento forza 9, mare conforme terribilmente verticale e anemometro costantemente sopra i 45 nodi. Avevamo già ammainato completamente la randa perché malgrado le tre mani, il pur massiccio boma di nove metri fletteva come un bambù. Rimanemmo alla cappa su una trinchetta pesante di Lami ingarrocciata su uno dei due strani prodieri gemellati che erano stati montati all’interno della prua per le trinchette da alisei: a poppa tenemmo la mezzana e ogni ora eravamo costretti a dare una rullata ai suo boma perché il vento continuava a rinforzare e la barca tirava a tratti all’orza alla disperata. Cedettero prima le antenne radio, compresa quella della radio principale che, montata sull’albero di mezzana, ci era stata garantita con venti fino a 160 nodi. Sparì durante un violentissimo groppo con grandine e fulmini e uno spezzone si incastrò sulla sartia volante in bando creando un pasticcio tra volante stessa, sartia alta della mezzana e bandiera nazionale. Fummo costretti ad armare il banzigo sulla mezzana e uno di noi salì alle crocette per sbrogliare tutto. Non fu affatto divertente.

Poi cedette, di schianto, il moschettone d’acciaio inox grosso come un pugno che armava la scotta della mezzana, segno che evidentemente c’era ancora troppa tela. Ero al timone in quel momento e il boma di mezzana partì come una fucilata contro le sartie. Per fortuna avevamo armato una ritenuta con una fascia larga un palmo (ci si poteva alare la barca) e tenne. Fummo costretti ad armare un nuovo moschettone sulla varea del boma che era a squadra un metro e mezzo fuoribordo sottovento: in tre con “Cencio” Zaccagni e Luciano (quello della Rimet nel frattempo risuscitato dopo una crisi di comprensibile terrore) lavorammo attaccati come granchi, cercando dl non pensare cosa sarebbe successo se uno solo avesse mollato la presa. Da due giorni vivevamo con le cinture di sicurezza costantemente armate, ma avevamo avuto tutti il tempo di vedere quanto incredibilmente sottodimensionati fossero i loro attacchi, «una mano per te e una per la barca» continuavamo a urlare ai ragazzi quando c’era la possibilità di farsi sentire. E qualcuno mi rispose anche, con la bocca piena di mare, che era una vera sfortuna non esser nati polpi.

Eravamo tutti prima increduli, poi via via distrutti, e poi ancora incerti, in una sorta di rabbiosa ribellione. «Finirà, dovrà finire prima o poi!» mugolavamo a turno ogni tanto. Nei momenti duri (e ce n’erano infiniti), riemergendo dalle insaccate rabbiose dei frangenti che correvano sulla barca, capitava di trovarsi negli occhi gli occhi di un compagno. Ho letto infinite volte stanchezza, e poi ansia e poi feroce attaccamento alla vita, e ancora stanchezza, sempre più stanchezza, una stanchezza infinita. Per fortuna c’era Albertino: in uno dei momenti più brutti qualcuno gli piombò addosso nel suo angolo sotto il tambuccio, dove passava ore puntellato come un granchio relativamente a ridosso e scoprì che, nel furioso terrore di molti, lui si stava silenziosamente ciucciando un barattolo di “Nutella” rubato chissà dove in sentina. La faccenda fu urlata in giro, ridemmo nella tempesta, forse isterici. Ma era vita. Cercammo di ripristinare un po’ di ordine e ci distribuimmo (quelli ancora disponibili) in turni di due o tre persone. Facemmo il possibile, in particolare, per mandare ogni tanto dabbasso Gerry Zaccagni, l’armatore. Ma era impresa disperata: turno dopo turno rimaneva in coperta, o puntellato sotto Il tambucio, con le costole contro i tientibene a fumare furiosamente o a “stabilizzarsi” con il whisky. Aveva il terrore di lasciare in coperta la gente senza tenerla d’occhio: aveva il terrore, comprensibile, che qualcuno volasse in mare. Per reazione, cercai di tenermi in forze e mi costrinsi ad abbarbicarmi alla cuccetta nel turni di riposo. Mario si rivelò uomo di mare prezioso anche per il morale: scherzava ancora sulle nostre speranze di sole caldo delle Canarie, cercava di costringere i più spossati a ingoiare almeno mezza salsiccia e una galletta, ricordava alla gente la necessita di riposarsi per poter prendere decisioni corrette. Cercò anche di fare qualcosa di caldo: e ce ne voleva di fegato e senso d’equilibrio per avvicinarsi alla cucina! Scherzammo, quelli di noi che ancora ce la facevano, sul prezioso salmone, munificamente portato a bordo da Guido, che qualcuno aveva visto ultimamente infilare la sentina insieme alla nafta fuoriuscita da un serbatoio e a un turbinio di guanti e calzini inzuppati. Per fortuna c’erano le mele di Stefano, tanti chili di meline dolci e sugose stivato nella ghiacciaia sull’ala di tuga. Ci facevano da pasto e da bevanda e quando chi era al timone proprio non ce la taceva più, ecco che urlava al vento di portargli una mela e c’era sempre un eroe che, strisciando e sputando mare ad ogni palmo, s’incaricava di attraversare i pozzetto con il prezioso carico. La battezzammo “la via delle mele” quella traversata del pozzetto non priva di pathos. Nella notte tra mercoledì e giovedì 2 dicembre, ci fu un’ora di stanca della tempesta, incredibilmente, dalle nuvole basse che galoppavano contro la luna sbucò alle 01:45 un bimotore ad elica che ci sorvolò più volte a non più di cento metri d’altezza, illuminandoci a giorno con i fari di atterraggio. Enrico l’agganciò subito con il Vhf, ci dette il nominativo (Esso-York, aereo di ricerca petrolifera d’appoggio a una grossa nave) e la posizione. Nelle ultime ventiquattr’ore era stato impossibile prendere rette d’altezza e avevamo tenuto costantemente una cappa che ci sembrava pressoché priva di scarroccio, con avanzamento di circa un miglio all’ora. Il punto dell’aereo ci dimostrò invece che avevamo avanzato verso SW di circa 1.5 nodi, ma avevamo anche scarrocciato di un miglio all’ora. Eravamo a circa 80 miglia a NE di Minorca. L’aereo spari quasi subito, confermando che c’era un tempo di merda e che sarebbe stato saggio starsene a casa. Convenimmo. All’alba di giovedì, quasi all’improvviso, ci rendemmo conto che fino a quel momento il libeccio aveva soltanto giocato con l’Alzavola. Alle 06:00 ci difendevamo alla disperata in un mare enorme, con muraglie verticali che, rombando, ci passavano sotto e sopra in turbinii senza colore. L’urlare rabbioso e continuato del vento si accompagnava al piangere stridulo delle sartie e ai colpi sordi, in certi momenti come esplosioni di mine, dei frangenti sul mascone. Il quadrante dell’anemometro, costantemente lavato dai colpi di mare e dalla spruzzaglia, aveva l’ago incollato sopra e 50 nodi; poi sopra i 60 nodi. Avevamo dimenticato le sofferenze della notte e dei giorni precedenti. Sembrava impossibile che un tempo, lontano, lontanissimo, avessimo avuto sole e risate e Gerry che voleva armare la canna da pesca per la traina e Mario che, agitando le collane di salsicce aveva gridato verso gli amici in banchina: «Torneremo grassi come maiali da concorso!». Andò avanti così per ventiquattr’ore e registrammo raffiche fino a 70, 80 nodi addirittura. E furono lunghe ore di un giorno che non passava mai, finché non arrivò la notte. E chi di noi la fece in coperta, scoprì allora che esisteva qualcosa ancor peggiore: l’urlo di quel mare o di quel vento nel buio spezzato dai fulmini e dalla faccia veloce, spaventata, tra gli immensi cavalloni neri, di una luna lebbrosa, costantemente in fuga.

Fu una notte di grandi terrori e di grandi coraggi. Ci fu chi pregò, urlando nel buio per aver salva la vita, ma anche altri certamente pregarono per le stesse dolci, improvvisamente enormi ricchezze lasciate in banchina, e non ci furono differenze tra coraggio e paura, tra preghiere espresse e preghiere più silenziose. Legati entrambi al timone durante il nostro turno, Gerry ed io scherzammo con la disperata allegria di chi sta facendo un bilancio finale e tutto sommato può anche andarsene con la coscienza quasi in pace. Urlando e bevendo “stabilizzatore”, lui ebbe i suoi bravi rimorsi per aver portato nella merda i tre figli: io gli gridai, vigliaccamente, che ero lieto di non avere il suo problema. Forse ci si stabilizzammo un po troppo, e del resto l’Alzavola teneva la cappa quasi da sola, difendendosi dalle muraglie rabbioso come un gabbiano appena seduto sull’acqua. All’alba, in un mare ancor più impossibile e montuoso, papà Zaccagni si scosse quasi con cattiveria dalla sbronza e mi urlò in faccia con rabbia che l’Alzavola non l’avrebbe mai buttata a fondo nessuna tempesta: « Ce la faremo, vedrai!».

L’alba, come al solito, ci portò un rinforzo di tempesta, e i soliti problemi di una barca e di un equipaggio logorati dalla fatica. Tra l’altro, cominciarono ad acca-vallarsi treni d’onde da NW su quelli da W e da SW che avevano caratterizzato il mare fino allora. Fu un sabba spaventoso, mai visto fino allora. Ogni ora credevamo che ormai la situazione non fosse più suscettibile di peggioramento: chi ce la faceva andava a dare un’occhiata di speranza al barometro. Ma nella mattinata continuò incredibilmente a scendere e poi ci levò ogni problema quando, in un colpo più violento, la lancetta schizzò via. Alle 07:00 fummo costretti a strisciare di nuovo a prua perché gli stralli gemellati, vibrando, avevano sganciato cinque garrocci della trinchetta e la vela minacciava di partire. Fu un lavoro durissimo, con le pinze nelle mani quasi insensibili e quella maledetta prua che ogni tanto andava sotto. Proprio nel momento in cui eravamo senza trinchetta, sentimmo la vibrazione del motore sparire da sotto i piedi e la barca venire violentemente all’orza. Era partita definitivamente la pompa degli iniettori e non fu possibile ripararla malgrado la caparbia sgropponata di Alberto, Enrico e Cencio Zaccagni, aiutati dall’immancabile Mario e successivamente anche da Guido. L’aver perduto il motore mentre il vento girava da NW fu un duro colpo al morale. In quel momento alcuni di noi capirono che non avremmo più agguantato Minorca, salvo il Miracolo di venti maneggevoli dai settori meridionali. Poco più tardi facemmo tombola. Alberto, pasticciando a prua (forse cercava « Nutella » intorno all’argano dell’ancora) scoprì che i venti del bompresso erano in bando e che i mare aveva fatto camminare di venti centimetri una piastra d’acciaio imbullonata sull’ordinata di sinistra del mascone, schiavardando tutto. Per non rischiare l’albero di maestra dovemmo rinunciare ad ogni speranza di armare lo strallo di prua. Senza motore e senza vele di prua, salvo la trinchetta interna, risalire il vento, anche se e quando si fosse calmato, era diventato impossibile. Però la tempesta stava chiaramente girando a NW e successivamente ci regalò qualche ora feroce da NNW con un pazzesco mare incrociato ma qualche segno di stanca. Ne approfittammo per cercare di guadagnare strada per Port Mahon, tirando bordi quasi piatti con quella poca vela a riva e correndo a prendere la cappa appena ci si scaricava addosso un altro dei tanti groppi violentissimi che ancora correvano tutto intorno. Per due giorni, due giorni di infinita lentezza, avanzammo così, a denti stretti, rosicchiando miglio su miglio. Nessuno parlava più delle Canarie, ma avremmo dato grandi tesori per lo Yacht Club di Port Mahon. Enrico rilevò venerdì, all’alba, il radiofaro del porto, a prua via del traverso, con segnale molto debole, e valutammo di essere a circa quaranta miglia. Negli sprazzi di sereno che ogni tanto apparivano tra le nuvole e la pioggia vedemmo due o tre volte alte scie dl condensazione dei jet di linea che dirigevano quasi sulla nostra prua. Per quanto spossati, rifiorì l’allegria: ci dicevamo l’un l’altro che quegli aerei dirigevano su Maiorca, o comunque sorvolavano il suo radio-faro. Poi arrivava regolarmente il groppo e tutto spariva nel turbinio delle creste, nella Micidiale fatica della pompa a mano e della ruota gelata del timone.

Le avarie continuavano, tutte piccole ma tutte stressanti. Saltò l’impianto di illuminazione delle bussole e fummo costretti a timonare con una torcia elettrica sotto l’ascella. Partì un pezzo di battagliola, poi il timone cominciò a fare strani rumori. Il timone, in particolare, costituiva da giorni il mio incubo. A un certo punto, nell’infuriare più duro della burrasca, qualcuno si mise a gridare di scappare in poppa e voleva filar cavi ma contro un mascone da carrarmato, l’Alzavola ha una poppa sfinata e bassa e un timone con la pala di legno che è rimasto lo stesso di sessant’anni fa. Insomma, non mi fidavo di prendere i colpi d’ariete di quel mare verticale sulla parte più delicata e convenimmo di agguantare Port Mahon dato che ormai eravamo a non più di venti-venticinque miglia. Cosi almeno era tracciato sulla carta.

Per due giorni e due notti ci trascinammo penosamente verso Minorca e ogni turno sperava ardentemente di vedere terra e ogni notte c’era sempre qualcuno che andava nel vento: «L’ho visto, ho visto il faro!», accorgersi, poco dopo, che erano i lampi all’orizzonte di uno dei tanti groppi. Il vento ora diventato più maneggevole, in genere intorno a 40 nodi, con qualche momento di stanca. Ma ogni tanto arrivava una sparata a cinquanta, con un turbinio bianco e ribollente di mare che ormai aspettavamo come una condanna. Al timone, quando stava per scadere il turno, c’era sempre un pensiero nascosto che suonava così: «Presto tempo, presto: fai che quel groppo laggiù di prua non tocchi a me». A volte ci si vergognava di questo preghiere e, per quanto spossati dal freddo, si offrivano strane cavallerie «Non mi rilevare ancora, non sono stanco: faccio un altro quarto d’ora io!». Ed erano quarti d’ora che non passavano mai. Sotto un violentissimo groppo di Mistral incrociammo anche una nave, una carretta di forse duemila tonnellate che rollava alla disperata scappando come poteva. Ci passò controbordo in pieno giorno deviando anche un po’ per non affondarci, ma non ci degnò né di uno sguardo né di un ricevuto ai nostri appelli in Vhf. Volevamo conferma della posizione, ma tirarono dritti. Esasperati, gli sparammo sulla verticale due razzi, che sparirono mangiati dal vento. Segnammo il nome, minacciando vendette.

Il rilevamento radiogoniometrico variava lentamente, ma non vedevamo terra. Tirammo un bordo verso Nord, poi tornammo in rotta. La delusione di non atterrare divenne ben presto una tortura, ti tagliava le gambe più del vivere costantemente bagnati e gelati, più dell’acqua che correva a pagliolo, più dei sacchi a pelo stillanti e degli zampilli dai passi d’uomo, sotto le cariche dei groppi. C’era il timore di avarie serie, che mollasse la trinchetta o — Dio salvi — il timone: ma il continuo rodere di questa incertezza sulla terra, sulla nostra posizione effettiva, su dove fosse finito il mondo sicuro dei letti caldi e di un brodo fumante, metteva a nudo le corde della volontà.

Mario faceva sforzi per essere spiritoso e Luciano reagiva con una allegria chiassosa che a qualcuno dava evidentemente noia. C’era chi viveva, in quelle ore, come se volesse evitare di esser visto e sentito dal Demonio, più in silenzio e più rincantucciato possibile. Reggere alla tempesta era stelo forse più facile che non alle mille delusioni dei mille secondi che si sgranavano senza veder terra.

Alle 05:00 di domenica, dopo una settimana esatta di mare, Luciano uscendo dal tambuccio avvistò direttamente sulla poppa le luci lontane di una nave che spariva nelle vallate delle onde. Chiamammo con il Vhf, segnalammo freneticamente con una torcia sub tipo Sublux e finalmente avemmo un contatto. Era la Olimpia Greece. Ci dissero che non potevano fornire assistenza diretta ma per Il resto furono contentissimi. Trasmisero con la loro radio un messaggio per tranquillizzare le famiglie in Italia, avvertirono amici nostri che stavano a Majorca e ci dettero la posizione. Scoprimmo così di essere a oltre 63 miglia a SE di Minorca. Impossibilitati a risalire ancora, quattro volte più lontani del nostro punto stimato.

Fu dura ma non ci rimase che decidere di far rotta sulla Sardegna sottovento. Considerando l’attuale Mistral e la possibilità di un ritorno del libeccio, scartammo le Bocche o decidemmo di tentare Cagliari, a centonovanta miglia. I greci non erano molto convinti, ma furono d’accordo che non ci rimaneva altro con le avarie che avevamo. Promisero di avvertire la Capitaneria sarda e sparirono in un alba come al solito tempestosa, con pinnacoli vaganti di trombe marine tutto intorno a noi. Strambammo con infinita pazienza e sotto trinchetta e mezzana terzarolata a metà prendemmo a correre in poppa, finalmente veloci.

Come d’incanto rifiorì l’allegria e anche chi era stato tre giorni ko ebbe la forza di riaffacciarsi in coperta. Il romperla con quel disperato strisciare, la frenesia di questo correre finalmente veloci, con lo speedometro a 5, poi a 6, poi a 7 nodi e grandi colpi di mare che si smorzavano a poppa, davano probabilmente l’impressione che il peggio fosse passato. Furono invoco altri due giorni e due notti di corsa e nelle prime quarantottore, rischiammo grosso a più riprese. Il mare era ancora da tempesta, ferocemente verticale, con rinforzi di vento a cinquanta nodi che duravano un’ora o due per poi calare, regalandoci uno squarcio di cielo grigio-cenere, fino a quando un altro groppo ci passava nuovamente sopra. Camminare con le onde in poppa esatta non era possibile perché trinchetta e mezzana sventavano a tratti e Alzavola cominciava una danza disordinata con sbandate sempre più forti e sincrone. Cosi camminammo con prua 107°, vento e mare al giardinetto. Neppure in questo modo, però, era facile perché ogni tanto arrivava un treno d’onde da libeccio che si incrociava o ribolliva con quelle da Mistral e l’Alzavola veniva risucchiata con la poppa in basso, scavalcata letteralmente dal frangenti, schiacciata e scrollata come un fuscello. Ripartiva sempre scaricando cascate d’acqua come on sottomarino in emersione. Forse era anche un bello spettacolo ma c’era l’incubo di quel dannatissimo timone e la necessita di pompar l’acqua dalla sentina che zampillava dai tambucci e dal pozzetto. II pozzetto, piccolo per fortuna, dimostrò presto parecchi limiti, c’era una grossa via d’acqua nella scassa (non protetta) per la leva della pompa a mane e gli scarichi si rivelarono semi ostruiti, lentissimi. Per fortuna nel suo correre ondeggiando sotto le raffiche, la barca scaricava la mezza tonnellata d’acqua del pozzetto, dopo un paio di rollate, fuori dalla battagliola.

Ci preoccupammo parecchio dell’esattezza della rotta per vari motivi: uno è che puntavano su capo Teulada e quella zona è famosa per mangiarsi barche e navi come grissini. C’erano poi quei treni d’onde da Libeccio, sempre più frequenti, che volevano dire una cosa sola: presto sarebbe tornato vento da SW e non c’era dubbio che sarebbe stata un’altra scanagliata. Così era vitale conoscere ogni ora l’esatta posizione stimata. Il tavolo da carteggio era ridotto a campo di battaglia, con acqua ovunque, carte stracciate e impastate a pagliolo, una confusione incredibile dovuta anche al fatto che la zona costituiva il passaggio interno per la cala del motore e a più riprese qualcuno aveva tentato di rimettere in moto “il bel addormentato” ricavandone solo spruzzi di nafta che avevano impiastrato tutto. Scoprimmo anche di non avere carte della Sardegna e carteggiammo alla peggio con una generale del Mediterraneo: uno a due milioni.

Nella notte tra domenica e lunedì il Mistral abbonacciò decisamente e il turno in coperta, avendo girato iI vento da WNW, mandò a riva le trinchette gemelle. Fu un lungo sforzo, ma ormai c’era la frenesia di arrivare e, con il vento calato a 25 nodi, una gran luna, solo ogni tanto coperta e il mare più buono dell’ultima settimana, trascinarsi a 4 nodi sembrava un’agonia. Corremmo a 6 nodi fino alle 03:00 del mattino, quando arrivò un rinforzo e dovemmo tornare alla trinchettina. All’alba, incredibilmente, il mare era ancora diminuito: onde lunghe e forti da libeccio vento the ormai aveva girato a WSW, ma roba maneggevole: 20-25 nodi.

Poco più tardi Guido avvistò terra, esattamente al mascone di sinistra: fu on bel memento per tutti e quando, alle 16:00 fummo al traverso dell’isolotto dirupato del Toro, e cominciammo il riassetto della barca. Avevamo avuto anche un contatto radio con un dilettante, un aggancio fortunoso rapidissimo, che ci aveva confermato che a Cagliari ci attendevano: improvvisamente sembrò importantissimo arrivare con la barca in ordine, a facemmo il possibile. Alle 20:40 sfilammo a un miglio da Capo Spartivento con il suo faro amico che accarezzò la vecchia Alzavola con dolce sicurezza. Poi, come Dio volle, doppiammo la punta di Pula e fummo dentro al golfo e chi proprio aveva ancora il magone dentro, sentì sciogliersi la tempesta, le preghiere e la paura. Ci fu chi si buttò in cuccetta e chi pasticciò con la radio chiamando ogni ore i marinaretti di turno a Compamare e chi, per la prima volta, chiacchierò in coperta su come era stato «quel mare» e com’erano alte quelle «muraglie» e cosa avrebbe fatto quando avesse potuto mettere le mani su «quelle cose» rotonde, calde, dolci.

Alle 04:00 circa una motolancia di Marisardegna ci prese a rimorchio nell’avamporto e venti minuti dopo eravamo ormeggiati al molo Sanità. Ci furono corse sfrenate dei ragazzi in banchina, ancora con le cerate addosso, e furono sacrificate senza rimorsi due bottiglie di champagne imbarcate per le Canarie. Poi arrivò une stanchezza lunga, infinita, invincibile. Crollammo qua e la come birilli e qualcuno, quietamente, si mise a piangere con la testa tra le mani. Mentre la vecchia cara Alzavola cigolava piano contro la banchina.

Antonio Fulvi

Un minimo che entra nella storia

II 2 dicembre 1976 passerà alla storia meteorologica europea di quest’ultimo trentennio come il giorno del «minimo»: basta dare un’occhiata al tracciato barografico, dove la tendenza negative manifestatasi in forma graduale durante il 30 novembre, diventa una discesa a ruota libera conclusasi tra le 13 e le 16 del 2 dicembre al livello record oscillante attorno ai 968 millibar.

Ma i nostri amici avevano cominciato il loro calvario fino dalla sera del 29 novembre, quando il minimo barico che dominava tutta la situazione, si trovava ancora all’altezza delle Isole Britanniche. Anzi, a voler giudicare dalla cartina di superficie del giorno 30, il libeccio a 30 nodi proprio non lo si vede. Ma le nostre stazioni meteo si trovano a valle di fenomeni di questo genere e spesso ciò provoca una ritardata sensibilizzazione degli avvenimenti che si affacciano veloci da Ovest.

Per tutto Il 30 novembre il minimo barico scendo e con esso aria fredda di origine atlantica comincia a raggiungere il Mediterraneo, pilotata da una corrente a getto Occidentale con massimo di 100 nodi, sui 9.500-11.500 metri.

Il giorno seguente, al seguito del getto, l’aria fredda in superfice sfonda e invade tutto il Mediterraneo Occidentale, con flusso perturbato de WNW: tale flusso proveniva direttamente dalla Groenlandia, attraversava tutto l’oceano Atlantico, ritrovando forza e vitalità a contatto con l’aria più calda dei nostri bacini. Il minimo si sposta verso il continente e contribuisce alla caduta veloce dei barometri. A questo punto bisogna anche dire the la burrasca da libeccio non è più tanto figlia di correnti meridionali, quanto effetto dei già forti venti da levante, ruotati di 20- 30 gradi dall’attrito in superficie, in direzione del minimo. II giorno 1 il libeccio rinforza oltre i 45 nodi portando il mare ad essere montagnoso. La pressione continua a scendere ed il mare a montare, spinto com’è da ormai tre giorni di vento forte.

Viene da chiedersi come mai i nostri amici non avessero ancora deciso di lasciar perdere le Baleari ma ciò appartiene all’imponderabile, a sua volta legato a problemi di programma da portare a termine, di fiducia nella barca, eccetera. Eppure il barometro parlava chiaro, senza minimi termini…

Il giorno 2 si giunge al minimo famoso, dovuto anche alla formazione di un minimo secondario a ridosso delle Alpi, non evidenziato dalla cartina, mentre un altro minimo si formerà sottovento all’Appennino ligure, richiamando la burrasca che apporterà molti danni sulle coste ligure-toscane. La corrente a getto infatti è già orientata da NW con asse da Gran Bretagna a Italia settentrionale a velocità variabile tra i 120 e 150 nodi e con letto più abbassato sugli 8,500-10,500 metri di altezza.

Può essere a questo punto interessante riportare il Meteomar italiano lanciato alle 01:20 GMT del 2 dicembre.

Avviso: possibilità di temporali con raffiche di vento su tutti i mari italiani. Burrasca in corso da ovest-sud-ovest forza 8-9 sui mari di Corsica, Ligure, Tirreno, canale di Sardegna e Ionio. Si prevede burrasca da sud-ovest forza 8 su medio e basso Adriatico.

Situazione: su tutto il Mediterraneo occidentale e centrale, compresi i mari italiani e libico, area di profonda depressione in seno alla quale si muovono veloci perturbazioni con direzione est. Sul Mediterraneo orientate pressione intorno a valori normali, in temporanea diminuzione.

Previsione valida 12 ore: Mar di Corsica, Ligure, Tirreno e canale di Sardegna, canale di Sicilia e Ionio, venti da ovest e sud-ovest forza 5-6 con rinforzi di burrasca fino a 8-9. Tempo coperto con piogge e temporali ma con tendenza a parziale attenuazione della nuvolosità dei fenomeni. Mari 6, localmente 7. Basso e Medio Adriatico venti da ovest-sud-ovest forza 4-5 con rinforzi previsti di burrasca fino a forza 8. Tempo coperto con pioggia e temporali. Mare 5. Alto Adriatico: venti da sud-ovest forza 3 con rinforzi. Tempo nuvoloso o coperto con piogge sparse o locali temporali. Mare 3 con moto ondoso in aumento. Su tutto il Mediterraneo occidentale venti in prevalenza da ovest-sud-ovest forza 4-5 con rinforzi fino a forza 7 e con temporanee rotazioni da ovest-nord-ovest. Tempo in prevalenza molto nuvoloso con precipitazioni sparse, anche temporalesche. Tendenza a schiarite temporanee. Tendenza nelle 2 ore successive: senza notevoli variazioni.

Possiamo notate come in questo Meteomar sia stata data la precedenza all’avviso, the era un avviso finalmente di burrasca seria. La situazione perciò è già grave sui mari Italiani, ma per le ragioni prima esposte, nessuno si immagina che nel frattempo la stazione di Marsiglia possa trasmettere avvisi di forza 11, confermati anche dalle dichiarazioni del Midshipman C.P. Junker della SS. Aloundrie che, a viva voce, si lascia poi scappare con Fulvi anche la parola «hurricane», pari a forza 12: Mr. Junker aveva tutti i motivi di nutrire apprensioni per lo sorti dell’Alzavola e del suo equipaggio, sballottati in quell’inferno. II giorno 3 la forte corrente do nord-ovest trasla il sue asse centrale verso sud, accompagnata però da una serie di manifestazioni frontali a carattere di instabilità che aumentano il tormento di chi sta per mare, perché ai treni d’onde incrociati si alternano violenti impulsi di vento sui 50-60 nodi, con qualche breve pausa illusoria. In seguito il Mistral opera il consueto capolavoro. Lascia cioè i nostri amici nella convinzione di navigare nella zona a est delle Baleari, mentre la mattina del giorno 5 scopriranno di trovarsi già 60 miglia a SE di Minorca, senza la possibilità di riagguantare l’isola. La componente di deriva del Mistral forte invernale è stata come sempre notevolissima e perciò la decisione di mettere prua per SE scontata oltre che inevitabile.

Poiché la direzione di provenienza della corrente perturbata atlantica dal giorno 5 ritorna nuovamente da ovest, tutta la navigazione in direzione di Cagliari tornerà, prima lentamente o poi decisamente sotto il dominio del libeccio. Infatti il nostro Servizio meteorologico comunicava il giorno 5, con valore anche di previsione: …burrasca da ovest forza 7-8 su mare e canale dl Sardegna… Un Mediterraneo ammonitore per tutti e non solo per i nostri amici dell’Alzavola che in qualche modo se la sono cavata con molta paura ma senza danni

Sergio Mallngher

Dopo il naufragio del trimarano, 19 giorni alla deriva

Mentre l’Alzavola combatteva con la tempesta forza 10 nel Golfo del Leone, altri due navigatori Italiani si trovavano in una situazione non meno disperata. Si tratta di Deli Carbonari, 29 anni, napoletano, volto abbronzato, skipper di un trimarano di m 9.30 e del sue compago di avventura Vincenzo Scotto. Erano partiti da Fiumicino per raggiungere le Canarie come prima tappa di un giro del mondo. Hanno fatto naufragio, a causa dell’urto contro un tronco, proprio nei giorni del famoso «minimo» e sono cosi andati alla deriva per ben 19 giorni.

Ma sentiamo dal diretto interessato il lungo racconto di questa avventura: «Sei anni fa, ho avuto il primo incontro con la vela. Sono rimasto talmente colpito da questo sport da regatare per un intero anno su un VI classe di un amico. Intanto ho cominciato a progettare un viaggio intorno al mondo».

«Nell’aprile dell’anno scorso mi sono dimesso dal lavoro di produttore pubblicitario e ho iniziato la ricerca di una barca comoda e sicura. Sono stato abbastanza fortunato perché ho trovato subito un Nimble d’occasione, costruito dai cantieri di Donoratico nel 1966. Si tratta, come è noto, di un trimarano realizzato in compensato marino, lungo metri 9,30, largo metri 5,50, una barca comoda e sicura, con una grande riserva ai galleggiamento (manca la zavorra) e con una robustezza notevole (i tre scafi non sono uniti solo da longheroni ma sono tenuti insieme anche da due pontature). Naturalmente, dovendo affrontare una navigazione lunga ed impegnativa, ho provveduto a controllare tutta l’attrezzatura (vi era già un doppio strano a prua ed a poppa). Non solo ho installato a bordo un radiotelefono Vhf, un ecoscandaglio scrivente, un radioricevente transoceanico, due motori fuori-bordo da sei cavalli, un battellino di servizio, una zattera di salvataggio con viveri per quaranta giorni e razzi di segnalazione. Infine ho costruito io stesso un timone a vento con pala aerea a superficie variabile. Messa a punto la barca — 6 sempre Deli Carbonari che Parla — e dopo averla collaudata nell’estate scorsa con una navigazione di oltre mille miglia, ho parlato del mio viaggio ad un amico romano, Vincenzo Scotto, 26 anni, allievo ufficiale della Marina Mercantile e grande appassionato di vela. Vincenzo si e subito entusiasmato al mio progetto e ha condiviso l’idea di compiere prima una Sosta alle Canarie, per poi puntare sulle Antille, per procurare l’indispensabile per continuare il viaggio.»

«Così siamo partiti il sei novembre scorso da Fiumicino. I guai meteorologici sono cominciati presto. Fin sotto Cagliari ci hanno accompagnato libeccio e maestro forza 8. In pratica, per ben dodici giorni, abbiamo navigato con due o tre mani di terzaroli e con la tormentina, mettendoci alla cappa secca e con barra all’orza quando il vento superava forza 7. La barca si è comportata bene facendo solo filtrare un po’ d’acqua.»

«Continuando poi il tempo duro, abbiamo deciso di avvicinarci alle coste africane e di fermarci a Sona, in Algeria, in attesa che la situazione migliorasse. Una settimana dopo (il 29 novembre per la esattezza) siamo ripartiti con il tempo buono, con il barometro a 1030 o con la piantina del quotidiano “Le monde” che indicava una depressione dl 1025 all’altezza del Marocco. La cosa non ci ha spaventato eccessivamente perché pensavamo che si trattasse della tipica depressione di provenienza africana destinata a risolversi rapidamente. Invece il libeccio è arrivato a forza 7-8. Poi, la notte del 30 novembre, all’altezza di Capo Bucaroni e a 5 miglia dalla costa, il dramma. Lo scafo di sinistra ha urtato violentemente contro un tronco che lo ha sfondato per una lunghezza di circa due metri. Le conseguenze sono state immediate: l’acqua ha cominciato ad entrare nello scafo danneggiato, mentre io e Vincenzo cercavamo di aumentare il galleggiamento con taniche vuote. Intanto il mare forza 7 allargava l’enorme falla, nonostante ci fossimo messi alla cappa secca. Il 1 dicembre la situazione è apparsa in tutta la sua gravità. Il trimarano galleggiava bene ma temevamo che si spaccasse anche lo scalo centrale. D’altra parte il barometro continuava a scendere: 1025-1020 raggiungendo addirittura 998 in 24 ore. Il 2 dicembre, perciò, dopo che un ponente forza 8-9 ci aveva fatto scarrocciare di nuovo all’altezza di Capo Bona e temendo soprattutto il rovesciamento del trimarano (non il suo affondamento) abbiamo deciso in peno accordo di abbandonare la barca, utilizzando la zattera di salvataggio. Ci trovavamo in una zona di mare molto battuta e nel giro di un paio dl giorni qualche nave ci avrebbe certamente recuperato. D’altra parte non potevamo chiedere soccorso via radio perché Il nostro Vhf non era in grado di entrare in contatto con le troppo lontane stazioni della Sardegna né con quella di Capo Bona che era guasta.

La zattera, quindi, ci è apparsa il mezzo più rapido e sicuro per essere salvati, anche perché pensavamo di restare legati alla barca con una cima. Ma appena in acqua abbiamo visto che ciò non era possibile perché il trimarano scarrocciava a due nodi, mentre la zattera scarrocciava a 4 nodi, per l’immediata rottura dell’ancora galleggiante. Temendo, perciò, una lacerazione del tessuto gommato, abbiamo abbandonato il Nimble (poi recuperato rovesciato da una nave). Subito sono cominciati i guai: il mare forza 8 in due ore ha fatto rovesciare la zattera per ben quattro volte, facendoci perdere buona parte dei viveri e soprattutto gli indispensabili segnali di soccorso. Abbiamo capito che il sistema più efficace per evitare il rovesciamento consisteva nello stendersi sul fondo. Abbiamo così evitato ulteriori capriole, ma quando ormai era troppo tardi: poche scatolette di carne, alcuni tubi di latte condensato e dodici litri di acqua ci dovevano bastare fino all’arrivo dei soccorsi. E’ iniziato in questa maniera un periodo drammatico ed allucinante: per ben 19 giorni siamo andati alla deriva avvistando prima navi di passaggio, e poi la costa Siciliana alla quale disperatamente, ma invano, abbiamo cercato di avvicinarci remando con rudimentali pagaie. Il tempo intanto era migliorato, mentre la situazione alimentare era tragica anche se abbiamo avuto la fortuna di catturare una tartaruga che ci ha fornito carne cruda per alcuni giorni e di rifornirci d’acqua, grazie alla pioggia. Quanto al morale posso dire che eravamo abbastanza rassegnati. Trascorrevamo la giornata quasi in silenzio, mentre la notte ci addormentavamo abbracciati per combattere il freddo e l’umidità (gli unici fastidi ci venivano da alcune piaghe, dalle mani o piedi quasi congelati). Al diciannovesimo giorno, infine, quando da ben quattro giorni ci “nutrivamo” solo di acqua, la salvezza improvvisa a insperata: una nave liberiana a 40 miglia a Nord della Sicilia ci ha miracolosamente avvistati e raccolti.

Franco Aulisio

Peggio dell’Atlantico e del Pacifico

Alla vigilia di Natale, un giovanotto altissimo con una gran barba bionda e una giacca da navigazione Usa si è fatto vivo timidamente allo Yacht Club di Livorno con In mano un foglietto. C’era scritto solo Alzavola e, a fianco, le coordinate di un punto nave a NE di Minorca. Il ragazzo parlava solo la sua lingua, ma riuscì a far capire ai marinai di banchina che voleva notizie di quella barca. Così qualcuno Io accompagnò al capannone dove stavo lavorando intorno a un mio scafo. Quando capì che ero uno dell’Alzavola cominciò a balbettare, eccitato o quasi incredulo. Curtis Peter Junker, midshipman (guardiamarina) della Marina Mercantile statunitense, imbarcato per la prima volta da pochi mesi sulla portacontainers Aloundria della compagnia Sea-Land, appassionato velista e gran lettore di libri di mare, mi ha raccontato della tempesta al largo delle Baleari così come l’ha buscata la sua nave, il giorno dopo aver Incrociato l’Alzavola. Liberamente tradotti, i punti che possono interessare il lettore suonano cosi: «é stata la peggiore tempesta (storm) che gli anziani di bordo avessero mai incontrato. Anche il comandante, che ha navigato nel Pacifico e In Atlantico per molto tempo, non ha mai trovato tempo così duro. Noi abbiamo registrato vento, almeno a forza 11, con il barometro sotto 760 (millimetri) in una caduta molto veloce. Nessuno sulla nostra nave pensava di Poter incontrare un tale uragano in Mediterraneo, nemmeno nel golfo del Leone. Curtis Peter Junker ha voluto precisare che l’uragano, cosi l’ha definito più volte, li ha messi notevolmente In difficoltà per oltre otto ore. Fortunatamente la nave, che faceva rotta per Algesiras, era carica in stiva e quindi più stabile. «Abbiamo parlato molte volte, durante quelle ore difficili — mi ha detto il guardiamarina americano — dello yacht che avevamo incrociato e un po’ tutti eravamo sempre più convinti che non avreste potuto farcela. Abbiamo anche chiesto notizie per radio, nei due giorni successivi, a Palma di Maiorca e quando ci hanno detto che non vi avevano visti, vi abbiamo dati per spacciati io sono venuto qui quasi certo che mi avrebbero confermato i nostri timori». Con Curtis adesso siamo molto amici. Confesso che la sua ammirazione, per il fatto che ce la siamo cavata, solletica la mia vanità e a bordo della Aloundria dove ha voluto portarmi, sono stati veramente fraterni. Mi hanno chiesto a più riprese se siamo “professionisti”. Mi è sembrato un bel complimento, benché sappia bene che il merito maggiore va alla barca. La sera della vigilia, da bordo della Afoundria: mi hanno mandato anche un regalo, e un piccolo tronco scheggiato di olivo, un rametto quasi, che Junker mi ha poi detto avevano raccolto in coperta, lanciato dal mare subito dopo la buriana. E macchiato di morchia, scheggiato, contorto e là dove il legno è libero dalla corteccia, i marinai che in quel giorni ci incontrarono in mare hanno scritto a pennarello: «For the Alzavola — In memory of a Minstrel in the Gulf of Lion with almost Hurricane force winds, and in hopes that this should bring good luck!» — SS Afoundna (Per l’Alzavola — In memoria del Mistral nel Golfo del Leone con venti di forza almeno da uragano e nella speranza che questo possa portargli fortuna! — SS Afoundria).
A. F.

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